domenica 29 gennaio 2012
Globalizzazione, mondialismo e identità.
Globalizzazione, mondialismo e identità
PREMESSA
Una svolta importante nel pensiero occidentale avvenuta a cavallo fra l’Otto ed il Novecento, è stata la fine del determinismo di matrice illuministica settecentesca, prima nell’ambito delle scienze fisico-matematiche, poi, di riflesso, in quello socio-economico ed in filosofia.
Lo spirito del determinismo è sintetizzato molto bene dalle parole del matematico francese Pierre-Simon Laplace: Datemi le condizioni dell’universo in un dato istante, insieme con sufficiente potenza di calcolo, ed io vi dirò in che condizioni esso si troverà in un qualsiasi istante futuro.
Mentre Laplace credeva di possedere la chiave dell’universo fisico, altri pensatori, questa volta sociologi ed economisti, di cui Karl Marx è il più celebre ma non certo l’unico, stabilivano per le società umane leggi evolutive e modelli che immancabilmente si sarebbero realizzati risolvendo una volta per tutte i mali che da sempre hanno afflitto l’umanità.
Inutile dire che la realtà, naturale e sociale, ha presto provveduto a calmare la baldanza di tutti quanti, decretando così la fine dei tentativi di inquadrare la natura e, ciò che qui più interessa, le società umane, all’interno di teorie che stabilissero definitivamente i meccanismi del loro divenire.
Se con ‘ideologie’ intendiamo le varie costruzione di pensiero, spesso peraltro di grande pregio intellettuale, che fornivano la base teorica a tali tentativi, possiamo equivalentemente parlare di fine delle ideologie.
Il binomio mondialismo-identità dei popoli non sfugge all’impotenza del prevedere quale sarà la strada che le società umane imboccheranno sotto la spinta delle nuove tecnologie e degli interessi economici e politici soggiacenti.
Scopo di queste note è allora quello di fornire, se possibile, dati ed argomenti che servano a tenere sotto controllo l’evolversi dei fatti, fare qualche previsione a breve termine, capire quali siano i margini d’azione per incidere sugli avvenimenti e rompere la coltre dell’informazione ufficiale (media, scuola, governi) che tende a far apparire ’ineluttabile’, ‘naturale’, ‘nella realtà delle cose’ una determinata linea di sviluppo piuttosto che un’altra, mentre invece la storia ha mostrato di svolgersi come un magma mobile sempre pronto a rimescolarsi ed il cui punto d’arrivo non è determinabile a priori.
IL FATTORE TECNICO INFORMATICO
Il rapido sviluppo dell’informatica, con gli strumenti tecnici che mette a disposizione, gioca un ruolo importante negli aspetti economici, culturali e politici che riguardano il binomio mondialismo-identità.
I primi calcolatori elettronici nascono in Inghilterra e Stati Uniti negli anni ‘40 durante la seconda guerra mondiale, per esigenze militari (sistemi di puntamento, cifratura). Grazie anche agli sviluppi della fisica, conoscono un’evoluzione rapidissima, passando dalle valvole in vetro ai transistor fino agli attuali circuiti integrati. Capacità sempre maggiori di memorizzazione e potenza di calcolo li rendono presto indispensabili nell’ambito della ricerca scientifica e nelle grandi strutture pubbliche e private, mentre il successivo calo dei costi e delle dimensioni li introducono poco alla volta nelle case private. Le reti di calcolatori permettono poi a più macchine di comunicare tra loro scambiandosi dati e distribuendo la potenza di calcolo.
L’embrione di ciò che sarebbe diventato Internet nasce ai tempi della guerra fredda (1973) da un progetto della Advanced Research Projects Agency del ministero della Difesa degli Stati Uniti. L’esigenza da soddisfare è quella di una rete in grado di funzionare ancora, anche se con prestazioni ridotte, qualora una parte di essa venga distrutta da un attacco nemico.
Viene sviluppato un insieme di protocolli di comunicazione denominato TCP/IP che prevede il frazionamento dei dati da trasmettere in pacchetti indipendenti l’uno dall’altro, ognuno dei quali trova la sua via dal mittente al destinatario per strade anche diverse all’interno della rete. Nel nodo di arrivo i pacchetti vengono ricomposti e ne viene controllata l'integrità. Il vantaggio di tale protocollo consiste nel fatto che non è necessario definire né conoscere il cammino che i dati percorreranno. Sarà il software stesso, lungo i nodi della rete, a farsi carico di instradarli, evitando le eventuali interruzioni e scegliendo il percorso più veloce.
È l’inizio di Internet. Quando le esigenze militari si affievoliscono, sono dapprima le Università, i Centri di ricerca e le grandi istituzioni a collegare fra loro le proprie reti locali (da cui il nome di ‘rete delle reti’).
In questa fase, l’uso di Internet è ancora limitato prevalentemente all’ambito accademico per lo scambio di informazioni scientifiche e richiede conoscenze tecniche non indifferenti.
L’ultimo atto avviene nel 1989 presso il centro di ricerca del CERN di Ginevra con la nascita del World Wide Web, progettato per semplificare la condivisione di informazioni tra gruppi di ricercatori di fisica delle alte energie operanti in nazioni diverse.
La facilità d’uso dell’interfaccia utente, dotata spesso di una grafica accattivante, ne decretano subito il successo anche presso il grande pubblico e conseguentemente presso operatori commerciali anche medi e piccoli nonché presso tutti coloro che hanno interesse, per svariate ragioni, a tenere sott’occhio un bacino di opinione costituito da milioni di persone.
Gli sviluppi futuri sono guidati dal Consorzio WWW, con sede sempre negli Stati Uniti presso il Massachusetts Institute of Technology.
IL RUOLO DEGLI USA NELLE TRASFORMAZIONI IN CORSO
Gli Stati Uniti hanno vinto la seconda guerra mondiale, hanno drenato le migliori intelligenze da ogni paese, detengono le tecnologie chiave, sono rimasti l’unica superpotenza militare e costituiscono il più importante mercato mondiale. I paradigmi economici e culturali che nascono in questo paese diventano presto standard nel resto del mondo, occidentale e non.
Per comprendere l’evoluzione possibile del binomio identità-mondialismo è pertanto fondamentale cercare di capire quali sono le strategie che gli USA potranno adottare per meglio mantenere la loro leadership mondiale ed i loro interessi.
Fino al 1989 la politica estera americana era basata essenzialmente sul contenimento della potenza sovietica, il freno alla diffusione del comunismo e il predominio sul mondo occidentale.
Da quella data in poi, i possibili scenari strategici americani diventano molteplici.
L'opzione conservativa
Sostiene l’opportunità di non discostarsi sostanzialmente dalla politica estera seguita fino al 1989.
I concetti base sono contenuti nel New World Order del presidente Bush (1990), dove si stabiliscono le nuove ‘responsabilità’ degli USA e si ammette la guerra preventiva al fine di preservare l'ordine mondiale.
Nel 1992, un rapporto del Pentagono dal titolo Defense Planning Guidance (sottosegretario alla Difesa per gli affari politici Paul Wolfowitz), preconizza un nuovo ordine mondiale funzionale al ruolo che gli USA intendono mantenere di superpotenza unica dotata di facoltà d’intervento anche unilaterale.
Charles Krauthammer auspica una confederazione occidentale con gli USA al centro (in qualche modo prefigurata dal Gruppo dei Sette) come primo nucleo di un mercato comune mondiale. Ciò porrebbe al riparo la supremazia americana, per ora assoluta, dall’arrivo di nuovi contendenti.
Secondo Joseph Nye, gli USA devono assumere il ruolo di grande organizzatore mondiale assicurandosi il controllo dei grandi istituti internazionali quali Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, World Trade Organization, Trattato per la non-proliferazione nucleare etc.
Ben Wattenberg, direttore di Radio Free Europe, sostiene che il popolo americano deve riconoscere il ‘new manifest destiny’ che gli è proprio e promuovere nel mondo una democrazia di tipo americano per mezzo degli strumenti ‘culturali’ con cui primeggia: la lingua inglese, le università, i sistemi informatici, i media, il mondo dello spettacolo.
Fra i seguaci di quest’ordine di idee, Strobe Talbott, attuale numero due del Dipartimento di Stato di Clinton.
Insomma, Microsoft Windows, Pamela Anderson e Coca Cola per un mondo unipolare a dominanza USA.
L'opzione isolazionista
Sostiene che una politica estera di intervento a tutto campo presenta per gli USA costi superiori ai benefici e che, essendo oggi il potere essenzialmente economico, la vera predominanza va affermata su questo terreno.
Da segnalare che l’accezione americana del termine ‘isolazionismo’ non significa affatto ‘di isolamento’.
L’ex collaboratore di Nixon e Reagan, Patrick Buchanan, ad esempio, auspica il totale ritiro delle forze USA dall’Europa e dall’Asia, mantenendo però il primato militare e non escludendo sporadici interventi anche unilaterali.
L'opzione internazionalista
Richard Gardner, consigliere di Clinton, è il fondatore del 'Practical internationalism', il cui concetto base, che ispira buona parte dell’attuale politica estera americana, è quello di sicurezza multilaterale: sulla base del vantaggio garantito loro dall’isolamento geografico e da un’indiscussa superiorità militare, gli USA dovrebbero limitare l'uso della forza all’interno di contesti multilaterali e cercare di mantenere una situazione di equilibrio sfruttando le rivalità fra le altre potenze.
Henry Kissinger sostiene che gli interventi USA dovrebbero essere selettivi, evitando di intervenire in ogni situazione di crisi: se in alcuni casi è indispensabile un intervento diretto americano, in altri è sufficiente un'azione multilaterale ed in altri ancora non si interviene affatto. In questa prospettiva, l'intento di costituire un ordine globale fondato sugli interessi USA risulta meno forte ma è sempre presente.
Strobe Talbott, segretario di stato aggiunto, parla di ‘diplomazia per una competitività globale’ (1994) intendendo con questo lo stare in guardia affinché nuovi raggruppamenti economici regionali non si pongano obiettivi contrastanti con i famosi interessi superiori degli Stati Uniti, magari chiudendosi all’influenza dei capitali americani.
Richard Haas, della Brookings Institution ed ex consigliere di Bush, vede l’America come una Big Corporation che deve sfruttare la sua temporanea posizione di forza sul mercato per trasformarlo secondo i propri fini. Nel suo The Reluctant Sheriff, 1997, scrive: Obiettivo della politica estera americana deve essere operare con gli altri attori che condividono le stesse idee a migliorare il funzionamento del mercato e a rafforzare il rispetto delle sue regole fondamentali. Con il consenso, se possibile, con la forza, se necessario.
Dunque l’ex Gendarme del Mondo, impegnato in passato a combattere l’Impero del Male ovunque si manifestasse, si trasforma nel buon sceriffo il quale, quando costretto, raccoglie in fretta un manipolo di vigilantes e parte alla repressione.
USA e internet
Nel 1993, Al Gore inaugura la Global Information Infrastructure che nel Duemila connetterà fra loro più di duecento milioni di computer.
È il nuovo grande progetto dell'amministrazione Clinton, analogo, come espressione delle ambizioni egemoniche americane, al New Deal di Roosevelt e all’obiettivo Moon di Kennedy.
Gli USA, insieme composito privo di quell’omogeneità che solo la storia può produrre, compensano il loro deficit di identità ‘comunicando’ più di ogni altro paese. E poiché, come è noto, ciò che conviene agli USA deve necessariamente valere anche per il resto del mondo, prescrivono a tutti la loro ricetta. Anzi, trovandosi in posizione di forza, esercitano una supervisione sulla sua messa in opera per pilotare opportunamente il processo di globalizzazione. Infatti, come Brzezinski aveva sostenuto fin dagli anni Settanta, "… sono stati gli Usa il paese che ha lavorato di più alla creazione di un sistema di comunicazioni mondiali avvalendosi dei satelliti e che si trova più avanti nella messa a punto di una griglia mondiale di informazioni”.
L’essenza delle varie opzioni
È appena il caso di osservare come, dalle dichiarazioni di uomini di stato, politologi, strateghi vari e soprattutto dalla politica messa in atto nella realtà dei fatti, appaia chiaramente che la volontà USA non è di sedere pari tra pari nel consesso mondiale delle nazioni ma di dirigerlo conformemente ai propri interessi.
L’idea di base è quella di creare un mercato unico mondiale a misura USA sfruttando l’attuale posizione di forza militare, economica e tecnologica, impedendo che altri possano eguagliarla, mantenendo o conquistando il predominio nei grandi organismi finanziari internazionali e sui sistemi delle comunicazioni, senza trascurare ciò che a detta loro è la cultura.
Le moderate differenze consistono più che altro nel privilegiare eventuali interventi multilaterali rispetto a quelli diretti, senza peraltro mai escluderli del tutto.
ASPETTI ECONOMICI
La categoria del lavoro umano si è sempre articolata in mestieri diversi, dotati tutti di una loro precisa specificità riconosciuta socialmente, ad esempio con le istituzioni delle varie ‘arti’, e rafforzata nell’immaginario da rappresentazioni e simbologie del tipo dei santi patroni.
Un formidabile colpo alla specificità dei lavori è venuto, agli albori del Novecento, dalla visione industriale di Taylor, con la sua razionalizzazione estrema dei tempi e dei metodi produttivi. Qui l’artefice produce, mediante una serie di operazioni elementari rigidamente pianificate e monotonamente ripetute, uno stesso dettaglio, sempre più particolare, che prenderà significato solo quando composto con tutti gli altri dettagli prodotti con uguali modalità da altri a costituire l’opera finita. Alla figura dell’artefice è sottratta ogni connotazione di carattere professionale, etico e psicologico ed è privilegiato unicamente l’aspetto tecnico dell’organizzazione del lavoro, volta alla massima efficienza e redditività economica.
Il concetto di informazione incomincia ad apparire in tutta la sua importanza quando, al Massachusetts Institute of Technology, il matematico Norbert Wiener inizia lo studio della Cibernetica. L’idea, non nuova in verità ma portata ora a compimento e formalizzata matematicamente, è la possibilità di governare il funzionamento di un dispositivo utilizzando l’informazione sugli effetti che l’azione in corso sta producendo per agire a ritroso sulla sorgente dell’azione stessa, regolandola (regolazione retroattiva o feedback).
Queste nuove idee scientifiche, insieme con le teorie di Taylor, sono parte dell’atmosfera culturale in cui si sviluppa il modello industriale di Henry Ford, secondo il quale l’impresa deve articolarsi in un primo livello al quale competono le decisioni strategiche (gli obiettivi del meccanismo-impresa), un secondo cui compete la gestione delle risorse (regolata da feed-back) ed un terzo incaricato della produzione (il funzionamento del meccanismo).
Sui mercati nascenti e relativamente chiusi del tempo che garantiscono una domanda sostanzialmente stabile e prevedibile, questi modelli hanno successo per molti decenni.
Nei primi anni Ottanta emerge il modello giapponese (Toyota), la cui caratteristica principale è la capacità di adeguarsi prontamente, con la produzione di beni diversificati prodotti in piccole serie, ad una domanda che nel frattempo si è fatta mutevole ed internazionalizzata. L’obiettivo viene raggiunto sostituendo alla precedente rigida organizzazione industriale una struttura flessibile in grado di redistribuire prontamente al proprio interno, sulla base di un flusso informativo sempre di tipo feed-back, energie materiali ed umane, superando così la classica distinzione fra servizi di produzione, direzione e amministrazione.
Inizia il technology push, dove l’innovazione tecnica è sempre più spesso ricercata dalle grandi aziende non al fine di migliorare i prodotti ma per creare nei consumatori nuove esigenze e mode che richiedano di essere soddisfatte. Pubblicità e marketing si incaricano poi di scatenare la domanda.
Negli anni Sessanta Galbraith scriveva: Ormai l'iniziativa di decidere che cosa debba essere prodotto non appartiene più al consumatore ma alle grandi organizzazioni produttive. Un condizionamento, di cui la pubblicità è solo uno degli strumenti, tende a imporre un'identificazione fra gli obiettivi dell'organizzazione, quelli del corpo sociale e quelli dell'individuo. Le grandi industrie modellano gli atteggiamenti della collettività sui propri bisogni”. Ed infatti Akio Morita, presidente di Sony Corporation, può dichiarare: “Sony non vende nuovi prodotti. Sony vende nuovi comportamenti.
La parabola dei metodi di produzione industriali sopra accennata lascia intravedere quali saranno le tendenze prossime future (ed in parte già attuali).
Le grandi multinazionali, di vecchia e nuova costituzione, manterranno un nucleo alquando ristretto di dipendenti diretti le cui retribuzioni, peraltro costituite in gran parte da dividendi, saranno funzione dei risultati ottenuti, mentre filiali delocalizzate si confronteranno meglio con i mutevoli mercati tramite subappalti e lavoro part-time.
Il sistema industriale mondiale assumerà dunque l'aspetto di un reticolo distribuito sull’intero pianeta i cui nodi, autonomi ma integrati, saranno, ciascuno, un centro di decisione, di spesa e di responsabilità operante in rete attraverso collegamenti informatici internazionali non controllabili dagli stati nazionali, mediante i quali comunicherà decisioni e sposterà risorse e capitali in tempo reale da un capo all'altro del mondo.
Finalmente, mentre dall’antichità fino al secolo scorso il lavoro umano è stato concepito, in termini generali, come trasformazione di masse (prevalentemente materiali) mediante forze da applicarsi con opportuno impiego di energia (fisica o intellettuale), il lavoro verrà sempre sempre più a consistere in elaborazioni di codici, simboli e segni, ossia di dati.
Infatti, se l’amministrazione pubblica e privata, i sistemi bancario e commerciale, la ricerca scientifica, l’insegnamento, la propaganda, il divertimento, insomma molte fra le principali strutture del mondo umano si riducono ad essere sostanzialmente elaborazioni di dati, allora produzione e consumo divengono immateriali anch’essi e quindi adatti alla trasmissione a distanza: teleacquisto, teleinsegnamento, teleconferenza, telesorveglianza, teleservizio, etc. In breve, una teleattività sistematica in cui entità a prima vista eterogenee quali beni materiali, attività umane, processi tecnici, industriali, scientifici ed addirittura emozioni sono ridotti ad articolazioni diverse di uno stesso sistema generale che li mette in equivalenza, il denominatore comune essendo il nuovo concetto di lavoro come attività processuale [Legrain, Guattari].
Altro aspetto da considerare in questo scenario è la finanziarizzazione dell’economia.
La finanza, da corollario della produzione destinato ad agevolare gli scambi e quindi l’espansione industriale, sta prendendo il sopravvento nei confronti della produzione stessa, ossia dell’economia reale. Molte aziende tralasciano la loro vocazione produttiva basata su prospettive a medio e lungo termine, con un riguardo più o meno grande per il fattore occupazionale, per adottare sempre più la prospettiva di pretta marca americana del profitto immediato (non più capital gain ma semplicemente profit).
Se dunque la tendenza della politica capitalista è quella di privilegiare la rapida circolazione del capitale rispetto alla produzione di valore reale (finanziarizzazione dell’economia), è chiaro che il potere decisionale passa dalle vecchie borghesie produttive nazionali ad una nuova borghesia internazionalizzata degli investimenti finanziari.
Grazie ad informatizzazione e collegamenti in rete, gigantesche corporation impegnate in attività di ogni genere possono oramai essere dirette da un piccolo gruppo di manager situati in posti chiave in cui è possibile prendere rapide decisioni ed impartire molteplici ordini. Non si tratta di imprenditori ma di stipendiati di alto livello (quali ad esempio un chief executive officer americano), i cui introiti sono in gran parte costituiti da partecipazione agli utili.
Naturalmente ciò comporta il declassamento dei quadri intermedi finora preposti su vari livelli a tali funzioni.
ASPETTI CULTURALI
L’assunto di base di ogni tecnocrazia, sia essa industriale oppure finanziaria, è l’ammettere come reale solo ciò che è quantificabile e direttamente manipolabile. Da ciò discende che chi è in grado di governare un processo tecnico-industriale o finanziario sarà ipso facto in grado di governare ogni aspetto del reale, compreso quello socio-politico, e quindi anche la società nel suo complesso.
Questo cadere della distinzione fra politica come ambito dei fini e tecnica come ambito dei mezzi fa sì che ad ogni scelta politica, per sua natura legata a considerazioni di carattere morale e culturale, venga sostituita una scelta determinata da una stima tecnica basata su puri criteri efficientistici. Nella rozza visione della società come unità produttiva di cui occorre massimizzare l’espansione economica, trovano poco o punto posto i giudizi di valore, che quantificabili non sono, e la cosa pubblica è gestita mediante un apparato di controllo tecnico-burocratico basato su di un concetto di bene comune ridotto al puro benessere materiale.
In un sistema come questo, dove il denaro è al primo posto assoluto, la semplificazione dei valori in gioco comporta per i nuovi dirigenti tecnocratici una vera e propria deflazione culturale. La capacità acquisita dalle borghesie nazionali di negoziare i loro rapporti con la società non serve più ed infatti incominciano a sorgere scuole storiche che rivedono al ribasso l’importanza delle storie nazionali.
Il filosofo inglese Michael Oakeshott, ad esempio, scrive in un suo recente lavoro che non esiste una ‘storia della Francia’. Al che, qualcuno ha replicato che "una cosa chiamata Francia ha lasciato tracce più durevoli di una cosa chiamata Michael Oakeshott". Tuttavia la revisione della storia per bandire da essa la nazione è rivelatrice di un movimento di fondo da cui prende ad emergere l’ideologia ufficiale della nuova classe: un integralismo di marca tecnica, universalista, multiculturale e multirazziale contrapposto ai valori degli stati-nazione, definiti retrogradi sempre e a volte razzisti.
Al centro di questa operazione ideologica vi è ancora lo strumento Internet, sotto il cui cappello si ritrovano, in curiosa compagnia dei tecnocrati delle corporation, sia gli entusiasti che si attendono dalle nuove tecnologie comunicative un ‘recupero di democrazia’ sia i cyberpunk, per i quali ‘la rivoluzione corre sulle reti informatiche’, tutti uniti dalla stessa visione, piuttosto rudimentale e deterministica, che essenzialmente subordina la risoluzione di questioni non computabili alla ‘potenza di calcolo’ disponibile e pretende di far transitare attraverso le reti di calcolatori la regolamentazione della società umana.
La visione che sta alla base di questa nuova ideologia comunicativa consiste nel "… credere e far credere che i problemi sociali siano innanzitutto problemi di comunicazione, che una società si sviluppi prima di tutto grazie alla capacità di trasportare i suoi messaggi e che pertanto basti moltiplicare i canali e accrescerne la capacità di tramissione e di stoccaggio, perché venga alla luce una società nuova più democratica, più conviviale, aperta e pacifica". Insomma, un embrassons nous generalizzato (e regolamentato dai superiori) per porre finalmente termine al millenario travaglio delle società umane.
L'analisi del traffico sulla rete rivela invece che il tema più frequentemente dibattuto nei newsgroup riguarda il funzionamento della rete stessa. D’altronde, prescindendo da qualche folkloristico e superpubblicizzato cybermatrimonio, della cui sorte non è poi mai dato sapere, è difficile immaginare quali altri legami all'infuori di quelli virtuali possano unire individui che si connettono e sconnettono a caso, anonimamente e senza responsabilità.
Di fronte a questo mondo unidimensionale regolato da un governo planetario di transazioni finanziarie e contatti umani elettronici, le culture ancorate al suolo e alla storia dovrebbero scomparire.
Così preconizza il Gruppo di Lisbona: "Bisogna concepire un programma d'azione basato in particolare sul ricorso estensivo alle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione … L'intensificazione di questo dialogo attraverso una moltitudine di strumenti è infatti la via più sicura per edificare un nuovo mondo globale fondato sul rispetto dell'altro e per fortificare le basi di un sistema di governo mondiale cooperativo".
ASPETTI POLITICI
Va preliminarmente osservato che la diffusione di Internet con i suoi corollari economici e di costume, è un fenomeno consolidato da cui, piaccia o no, è ormai impossibile prescindere.
Il mondialismo, inteso come tendenza all’aggregazione, economica prima e politica in varie forme poi, fino al suo stadio ultimo costituito da un solo governo per tutto il pianeta, è cosa distinta dalla globalizzazione, intesa come liberalizzazione degli scambi e creazione di un mercato unico.
Naturalmente vi sono profonde correlazioni fra i due fenomeni, e al proposito si confrontano due diverse correnti di pensiero, una delle quali sostiene che la globalizzazione dei mercati implica necessariamente un governo mondiale unico mentre per l’altra non solo tale implicazione non sussiste ma al contrario la liberalizzazione degli scambi favorisce le autonomie politiche.
Tesi 1. La globalizzazione è lo stadio che precede il mondialismo
Questa tesi si basa sull’assunto che la struttura economica determini quella politica e ritiene pertanto inevitabile che un mercato mondializzato porti con sé un governo mondiale.
Secondo questa linea di pensiero, un mercato mondiale necessita di una regolamentazione mondiale che può avvenire soltanto per via legislativa, da cui l’esigenza di un organismo politico che vi provveda. In questo processo i maggiori gruppi economici non mancherebbero di premere con forza formidabile affinchè ciò avvenga nel modo più conforme ai loro interessi, liberandosi dall’impaccio costituito da ciò che furono le nazioni con le loro diversità ad intralciarne lo sviluppo.
I cittadini-consumatori abbandonerebbero i consumi tradizionali legati alla cultura del loro territorio per avvezzarsi, anche a mezzo del technology push cui si è accennato prima, al consumo di beni standardizzati la cui produzione, pubblicità e distribuzione risultano convenienti solo su scala mondiale. Un primo assaggio di tutto questo potrebbe essere l’elettronica di consumo, l’abbigliamento ed il divertimento di massa di stile americano. Quegli stessi cittadini-consumatori, d’altra parte, avvezzati come si è detto ed opportunamente scolarizzati dai grandi mezzi di comunicazione, riterrebbero infine del tutto naturale ed auspicabile la sanzione definitiva di questo stato di cose con la proclamazione anche formale del nuovo organismo politico.
Quanta democrazia reale possa poi sussistere in una gigantesca struttura di questo tipo, ancorché sanzionata da regolari elezioni, lo si comprende sufficientemente bene osservando il funzionamento del sistema americano, dove i candidati presidenti sono scelti primariamente dalle lobby in grado di fornire i milioni di dollari necessari per una campagna elettorale condotta fra luci al neon e majorette, con una percentuale di votanti fra le più basse del mondo.
L’anima della strategia mondialista sarebbe dunque a Wall Street e presso le holding, le broker house, i grandi Fondi Comuni di Investimento, i Pension Found, le grandi banche internazionali etc.
Segnatamente, sarebbe presso la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale (FMI), organismi a scala mondiale in grado di controllare i flussi finanziari internazionali che riguardano le più importanti decisioni economiche del pianeta.
A proposito del funzionamento di queste due ultime istituzioni, la sociologa Susan George, codirettrice del Transnational Institute di Amsterdam osserva:
La Banca Mondiale determina non solo le scelte macroeconomiche, essa pone anche altre condizioni, classificate sotto il nome di ‘buon governo’…che sono state causa di contraddizioni... Alcuni suoi progetti hanno dato luogo a violazioni massicce dei diritti umani, provocando l’esodo di milioni di persone... La Banca stabilisce le proprie leggi senza essere stata legittimata da cinquant’anni e, per ragioni complesse, le sue istanze dirigenti non possono avere soddisfacenti meccanismi di controllo.
Il FMI tende, tramite le condizioni che pone per la concessione dei prestiti ai Paesi in difficoltà, a privare gli Stati del controllo della loro economia. Questo organismo non cerca di adeguarsi alle realtà di ciascun caso concreto ma cerca di imporre ai paesi le proprie norme economiche. L’obiettivo sarà raggiunto nella misura in cui le particolarità saranno distrutte. Con la normalizzazione economica verrà la normalizzazione culturale e la uniformizzazione dei modi di vita.
E ancora: L’analisi dimostra che il ricorso indiscriminato al prestito smobilizza l’economia di un Paese, scoraggia il risparmio nazionale, rallenta la crescita della produttività interna, riduce la padronanza della catena tecnologica, orienta l’apparato produttivo verso i bisogni di una economia internazionale decentrata e drena a termine le risorse del Paese verso le potenze industriali. A ciò si aggiunge l’alienazione culturale prodotta dall’introduzione non meditata di un modello culturale straniero, lo sconvolgimento della struttura sociale, in particolare l’esodo rurale e la perdita progressiva dell’autonomia politica.
Tesi 2. La globalizzazione favorisce le autonomie
Secondo questa scuola, il mondialismo, inteso come programma mirante all’instaurazione di un governo unico planetario, massima concentrazione immaginabile di potere e quindi minaccia per la libertà dei popoli, è un fenomeno addirittura opposto alla potente forza decentralizzatrice costituita dalla liberalizzazione su scala mondiale dei mercati i quali, essendo insiemi di rapporti volontari dai quali è bandito l’uso della forza, non possono causare quello sradicamento delle varie culture che è invece operato dalla centralizzazione statale, strumento con cui le culture egemoni hanno sempre schiacciato quelle minoritarie.
Proprio la novità tecnologica costituita dalla diffusione della rete, con le sue conseguenze economiche e culturali, ha dato inizio al declino del rigido controllo che gli stati centralizzati hanno sempre esercitato sulle popolazioni stanziate entro i propri confini. Molti popoli ora avvertono lo stato nazionale, cui più o meno forzatamente appartengono, come un ingombro, perché sanno di essere inseriti in una rete di scambi globali di fronte alla quale le burocrazie accentratrici mostrano, insieme al loro costo, tutta la loro arroganza ed inutilità.
Friedrich Von Hayek, premio Nobel per l'Economia del 1974, sostiene la necessità di globalizzare i mercati, mentre si dichiara contrario a qualsiasi tipo di governo mondiale: Un governo mondiale anche molto buono - scrive - sarebbe comunque una calamità, perchè precluderebbe la possibilità di sperimentare strumenti alternativi. Dunque, per Hayek, la liberalizzazione degli scambi non porta né deve portare all’omologazione politica.
La studioso liberista Hans-Hermann Hoppe, in un suo recente saggio scrive: L'integrazione politica comporta maggior potere per uno Stato di imporre tasse e regolare la proprietà mentre l'integrazione economica rappresenta un'estensione della divisione interpersonale e interregionale della partecipazione al lavoro. Come può dunque - si domanda - la liberalizzazione degli scambi comportare un aumento della centralizzazione, considerando che in linea di principio tutti i governi riducono la partecipazione al mercato e la formazione della ricchezza economica?
Sempre secondo Hoppe, … nel confronto tra integrazione forzata e separazione volontaria, ci sono ragioni a favore della seconda … . I piccoli paesi sono naturalmente portati a scegliere il libero mercato anziché un’economia statalizzata ed inoltre la compresenza di tanti diversi stati sul territorio di un vecchio stato-nazione li pone in naturale concorrenza poiché i loro governi, per evitare di perdere la parte più produttiva della popolazione, sono spinti ad adottare politiche interne più liberali.
Finalmente, poiché adottando un regime di libero scambio illimitato, persino il più piccolo dei territori può pienamente essere integrato nel mercato mondiale e usufruire di tutti i vantaggi della divisione del lavoro, la liberalizzazione degli scambi risulta inseparabile dall’autonomia.
Ed infatti, molti piccoli paesi prosperano e non anelano a congiungersi con altri proprio perché si sono aperti ai mercati mondiali, mentre molti grandi stati, portati dalle loro dimensioni a tendenze protezioniste quando non autarchiche, hanno non di rado conosciuto il ristagno economico.
LA NUOVA EUROPA
Entrambe le tesi sopra esposte contengono spunti interessanti.
In ogni caso, mentre la globalizzazione è un fenomeno in espansione da tenere sotto attento controllo, un governo centrale, europeo prima e mondiale poi, è sicuramente qualcosa che si deve e si può fermare, se si vuole evitare una pericolosa involuzione dalla democrazia reale, intesa come effettiva possibilità di incidere sulle decisioni che vengono prese, ad una democrazia soltanto più formale, vuoto meccanismo di delega e rappresentanza.
Infatti, anche semplicemente per ragioni di numero e di distanze geografiche, in un parlamento continentale o mondiale la voce del singolo cittadino elettore viene ad avere un peso praticamente nullo mentre la gestione vera del potere è in mano alle alte gerarchie politico-burocratiche e la forza di pressione ai grandi accentramenti finanziari ed all’industria della comunicazione.
L’esame di come si sta sviluppando la nuova Europa è un’interessante banco di verifica delle argomentazioni precedenti.
La nuova Europa nasce bancocentrica. L’articolo 107 del Trattato di Maastricht recita:
"Nell’esercizio dei poteri e nell’assolvimento dei compiti e dei doveri loro attribuiti dal presente trattato e dallo statuto del SEBC (Sistema Europeo di Banche Centrali) né la BCE (Banca Centrale Europea) né una Banca Centrale né un membro dei rispettivi organi decisionali possono sollecitare o accettare istruzioni dagli organi comunitari, dai governi degli Stati membri né da qualsiasi altro organismo...".
All’osservazione che, con un’organizzazione economica siffatta, la politica interna dei singoli stati viene essenzialmente governata dall’estero, la risposta è che il nuovo ‘interno’ non è più quello dei singoli stati bensì quello dell’intero continente. È quindi ovvio che la regolamentazione economica avvenga a livello continentale. In più, viene spiegato che è questa la nuova dimensione alla quale occorre adeguarsi. Senz’altro vero. Manca però un particolare importante: la possibilità che resta al cittadino elettore e contribuente di controllare con il proprio povero voto entità talmente potenti e lontane.
Si consideri, ad esempio, che le famose ‘direttive’ dell’Unione non sono deliberate dal parlamento europeo, il quale ha funzioni solo consultive, bensì dalla Commissione, che è un organo eminentemente tecnocratico svincolato da ogni autentica legittimazione: questa è la ‘sovranità popolare’ di cui godono i popoli europei nella nuova ‘casa comune’, in attesa di quella ancora più grande a venire.
Il discorso è naturalmente diverso per le grandi istituzioni finanziarie, le quali da tempo hanno intravisto la possibilità di intervenire nella trasformazione economico-politica dell’Europa e del mondo. Ed infatti i supporter più entusiasti dell’unificazione europea sono stati banchieri e governanti, figure spesso coincidenti (come ad esempio nel caso italiano di Prodi, Dini, Ciampi e Berlusconi). Da subito le banche hanno dato inizio ad una girandola di fusioni e altre manovre varie.
Quanto a prestazioni economiche, la nuova Europa non ha dato finora gran prova di sé.
Dal momento dell’introduzione dell’euro, la produttività europea ha visto un calo continuo, ed anche il lato politico della costruzione ha mostrato vistose crepe, con il fallimento della missione ‘umanitaria’ nella ex-Yugoslavia e le tensioni create dal caso Iraq.
Che ne sarebbe stato poi della traballante costruzione europea se un politico sgradito, ad esempio, alla Francia fosse stato democraticamente eletto nella poderosa Germania?
IMMIGRAZIONE
È ovvio che popolazioni ad alto tasso di sviluppo demografico e basso livello culturale ed economico cerchino di spostarsi in zone dove è stata prodotta maggior ricchezza, sollecitate a ciò anche dalle trasmissioni radiotelevisive che ne mostrano in genere gli aspetti più allettanti.
Questi trasferimenti di enormi masse umane non risolvono il problema della sovrapopolazione nel mondo (gli africani con i loro ritmi di proliferazione sono oltre 700 milioni) né quello della povertà, che va affrontato nei paesi d’origine, mentre creano grandi squilibri nelle zone in cui si riversano, come sta accadendo in Europa, una delle parti più popolate del pianeta.
La situazione in Italia.
L’emigrazione italiana verso l’America del secolo scorso volgeva verso spazi sterminati e pressoché inabitati. Ancor oggi la densità di popolazione negli USA è di appena 28 abitanti per chilometro quadrato e di 12 in Argentina, mentre in Italia risultano censiti 190 abitanti per chilometro quadrato.
In queste condizioni di densità demografica, cui si aggiungono tassi di disoccupazione e criminalità fra i più alti d’Europa ed inefficienza dei pubblici servizi, la domanda di quanti immigrati l’Italia possa accogliere non ha ancora avuto risposte serie da parte dei responsabili.
I governi di centro-sinistra hanno spalancato le porte all’immigrazione con sanatorie e leggi tipo la Turco-Napolitano che prevede, insieme a molto altro, la possibilità di ricongiungimenti famigliari fino al terzo grado, praticamente il trasferimento di interi villaggi, data la vaghezza del concetto di stato di famiglia presso molte delle popolazioni interessate.
Dal canto suo la Caritas, che gestisce miliardi di assistenza pubblica e privata, continua a premere per la cosidetta politica delle porte aperte, salvo lanciare di tanto in tanto grida di allarme sul fatto che alla robusta criminalità italiana si è aggiunta quella immigrata, mentre il Vaticano è giunto a chiedere per il Giubileo un’ulteriore sanatoria per tutti i clandestini.
Un mix di interessi elettorali futuri, interessi economici e fumose teorie terzomondiste a spese dei cittadini e della convivenza civile.
Un argomento fra i più comuni dei fautori delle porte spalancate è che serve manodopera per i lavori che gli italiani non vogliono più fare. Così si ha l’assurdo che mentre, ad esempio, i giovani disoccupati siciliani e napoletani continuano ad essere assistiti con il denaro pubblico, sui pescherecci di Mazara del Vallo e nei campi ci sono marocchini e senegalesi. Un altro è che la popolazione italiana invecchia ed occorre quindi sopperire con un’immigrazione giovane. Ma come il Nord Europa ha da tempo compreso, a fronte del prolungamento della vita media è la nozione stessa di vecchiaia che va rivista, con un adeguato rinvio dell’età di pensionamento. Se qualcuno pensa di risolvere con l'immigrazione il problema di chi pagherà le pensioni, allora dovrà mettere nel conto incalcolabili costi a tempo differito (la casa, la sanità, la moschea, la scuola in lingua madre, etc.) oltre alle inevitabili tensioni ed ai problemi di ordine pubblico.
Se dunque la tendenza allo spostamento è naturale, assai meno naturale è che i governi, quello italiano in primis, abbiano svolto un’azione assai blanda di contenimento di queste masse umane.
Sia l’immigrazione un fatto incontrollato per incapacità o imprevidenza, sia un fatto voluto e favorito, essa è diventata un fenomeno sociale di estrema importanza che sta producendo un graduale sfiguramento delle popolazioni europee, diluendole ed intaccandone le originalità culturali con il forzarle a convivere in casa propria con nuove, numerose e a volte assai intolleranti presenze.
La capacità che un gruppo ha di opporsi ad un progetto che tende a farlo scomparire è direttamente proporzionale al suo grado di organicità interna, al suo essere Gemeinschaft e ciò avviene quando i suoi membri hanno la stessa provenienza etnica e culturale. Pare allora che la massiccia immigrazione che giunge in Europa proprio in coincidenza con la nascita del nuovo superstato sia funzionale alla progressiva creazione di un utile magma umano costituito da atomi disaggregati, privi di quelle radici (lingua, mentalità, cultura, tradizioni) che ne determinano le caratteristiche più significative, estranei ad ogni appartenenza e che mantengono come unico attributo quello della quantità.
IDENTITÀ DEI POPOLI
L'identità di un popolo riposa sul lento amalgama prodotto al suo interno da secoli di esperienze vissute in comune in pace ed in guerra entro un territorio che ne è stato teatro e che con le sue caratteristiche ha contribuito a determinarne la specifica "cultura" intesa come Weltanschauung, concezione del mondo.
Un popolo è tale - scrive Renan - se ha il sentimento dei sacrifici compiuti e di quelli che è ancora disposto a compiere insieme. Presuppone un passato ma si riassume nel presente attraverso un fatto tangibile: il consenso, il desiderio chiaramente espresso di continuare a vivere insieme. … La sua esistenza è un quotidiano plebiscito.
La secessione, per Renan, è dunque un diritto naturale.
A ragione Johann Gottlieb Fichte afferma che la nazione, che è cosa distinta dallo Stato, è una realtà fondata sulla storia: i suoi confini veri non sono pertanto qualcosa di fisico come i monti o i fiumi, che il nemico può sempre varcare, ma le tradizioni comuni e soprattutto i valori condivisi da tutti i suoi appartenenti.
La lingua svolge un'azione di primissimo piano nel sintetizzare le esperienze collettive, incorporandole in un flusso che si trasmette, a volte arricchito, a volte impoverito, di generazione in generazione e che viene a guidare, per così dire, il pensiero lungo direttrici caratteristiche, riflettendo il carattere del popolo che la parla ed alla sua volta contribuendo a formarlo ed a trasmetterlo.
In stretta analogia con l’impulso naturale che spinge i singoli individui a prolungare ed affermare se stessi lanciando nella discendenza il proprio codice genetico, anche le motivazioni fondamentali di ogni comunità umana sono la sopravvivenza alle durezze della natura e l’affermazione di fronte alle altre comunità. Profondamente diversi sono però i modi in cui queste pulsioni vengono realizzate nel corso degli eventi che costituiscono la storia.
Ognuno di questi modi è la sperimentazione di una fra le possibili strade alla sopravvivenza ed alla ricerca della propria ragione di esistere che la natura, in un certo luogo e tempo, consente ad un gruppo umano.
In questo senso la cultura di un popolo lo distingue dagli altri e lo caratterizza, fintantoché una catastrofe, una trasformazione profonda, lenta o improvvisa, non ne inizi una nuova.
L’antropologo Claude Levi-Strauss scrive che la vera ricchezza dell'umanità è costituita dai differenti modi con i quali i diversi gruppi umani affrontano la vita nel suo duplice aspetto materiale e intellettuale ossia delle diverse risposte che essi danno al problema del perché vivere e del come sopravvivere.
Se le chiavi interpretative del mondo e dell'esistenza sono ridotte ad una sola, l'umanità avrà difficoltà a risolvere i propri problemi. Per questo è essenziale che ciascun popolo conservi la propria Weltanschauung specifica, distillato di esperienze originali in secoli di vita comune.
La società capitalistica industriale, basata su produzione e consumo sempre più frenetico di merci, travolge ogni tipo di cultura che non sia in grado di adeguarsi in fretta alle sue leggi, appiattisce sui suoi propri ogni altro valore, modello, visione. Chi non si dota di un apparato produttivo industriale è destinato a scomparire come entità sociale. Chi se ne dota ex abrupto, senza che il processo sia stato lentamente maturato e metabolizzato, vede presto insorgere contraddizioni, conflitti e rigurgiti sanguinosi. Esempi ne sono paesi di recente industrializzazione in sud America e paesi riccamente dotati di risorse naturali in Africa, dove una ricchezza improvvisa ed importata ha paradossalmente significato per le popolazioni corruzione, massacri, miseria ed emigrazione di massa. L’identità è lo schermo naturale alla devastazione di delicati equilibri interni causata dall'imposizione acritica ed improvvisa di modelli estranei.
Particolare interesse ha il caso dello stato italiano, che è sorto non da una matura coscienza unitaria, da una vera omogeneità culturale, economica ed etnica ma dalla volontà espansionistica di una casa regnante che ha forzato insieme popoli separati da oltre un millennio di storia.
L’inventare uno stato forzando insieme i popoli dell’Italia meridionale con la loro storia ed i loro valori e quelli settentrionali passati attraverso la fondamentale esperienza storica dei liberi comuni e con il forte denominatore comune dell’etica del lavoro e della mentalità razionale che l’accompagna e ne costituisce, per dirla con Hegel, il Volksgeist, la ‘moralità sociale’ in cui essere e dover essere coincidono (nella famiglia, nella società civile e nello Stato), l’accentrare il nuovo stato per tema di spinte centrifughe, l’imporre leggi e mercato piemontesi alla società meridionale-papalina, latifondista e spagnolesca e impossibilitata a recepirle, la becera politica di italianizzazione forzata del fascismo ed infine la collusione fra apparato statale romanizzato e grande industria assistita pubblica e privata, tutto ciò ha condotto alla situazione attuale di uno stato che, unico in Europa, ha dovuto ricorrere all'impiego dell'esercito regolare in alcune sue regioni per potervi mantenere una parvenza di ordine civile.
Mentre già nel 1700 Montesquieu affermava che leggi ed istituzioni dei vari popoli non sono qualcosa di casuale o arbitrario ma sono strettamente legate al carattere dei popoli stessi, ai loro costumi nonché alla natura del paese in cui essi vivono, cioè al clima, alla struttura geografica etc., concludendone che è un puro caso che leggi di un popolo convengano ad un altro, due secoli dopo gli artefici dell’unità italiana ancora ignoravano questi fatti elementari.
CONCLUSIONE
Riprendendo lo spunto iniziale sulla fine delle ideologie, si può affermare sia l’impredicibilità del punto di arrivo di questo momento storico estremamente complesso e gravido di trasformazioni economiche, culturali e politiche che la possibilità di incidere con l’azione sul suo svolgimento, per rimanere padroni del nostro destino. Molti popoli in Europa proprio in questi anni hanno fatto significativi passi avanti verso la loro autonomia.
Chateaubriand si chiedeva alla fine del secolo scorso: Che cosa sarebbe una società universale senza alcuna nazione, che non fosse né francese, né inglese, né tedesca, né spagnola, né portoghese, né italiana, né russa, né tartara, né turca, né persiana, né indiana, né cinese, né americana, o magari che fosse tutte queste società insieme? Che cosa ne risulterebbe per i suoi costumi, le sue scienze, le sue arti, la sua poesia?".
Che cosa sarebbe, si potrebbe aggiungere, un’orchestra composta da strumenti tutti uguali?
Per dirla ancora con Renan, attraverso le loro diverse vocazioni, spesso opposte, le nazioni servono alla comune opera della civiltà; tutte apportano una nota a quel grande concerto dell’umanità che è, in definitiva, la più alta realtà ideale da noi raggiunta. La loro esistenza è garanzia della libertà che sarebbe perduta se il mondo avesse una sola legge ed un solo padrone.
Comportamento, linguaggio, abbigliamento, musica, divertimento, cibo uniformi su scala planetaria allevano un'umanità omogeneizzata tragicamente dotata degli stessi pensieri e stimoli emotivi. Chi viene privato delle sue radici e memoria storica, chi non è in grado di capire attraverso quali percorsi è diventanto quello che è, è in balia di centri di potere economico e politico sempre più lontani, anonimi e potenti, gli unici ad avere mezzi sufficientemente forti per imporre di volta in volta quegli schemi di comportamento che più servano ai propri interessi.
Privato di un governo locale che sappia contrapporsi come uno scudo alle scelte centrali, il cittadino vedrà il suo potere di influire sul proprio destino e sul mondo destinato ad accogliere i suoi figli diventare insignificante.
(Silvano Straneo)
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