Non sono io che dico che è inutile, sono i fatti che
stiamo vivendo. L’autonomia così concepita è un sogno timoroso, va bene a
coloro che sanno pensarsi liberi e autodeterminanti sempre fino ad un
certo punto. E' un pensiero debole, che genera e riconosce come
legittima la dipendenza da un potere altro: l’autonomista sardo vive
schiacciato dal timore che l’indipendenza reale sia l’altro nome della
solitudine e della povertà economica, e questa convinzione è il frutto
del complesso corto circuito sociopolitico che ci vuole sempre “mai
abbastanza grandi”. Per fare un esempio: moltiplicare enti come le
province sul territorio sardo amplifica questa dipendenza, perché
aggiunge ulteriori legami economici a senso unico su un territorio
depresso che già vive per il 66% di trasferimenti statali. Ci stanno
mandando 2500 militari dell’esercito per garantire la nostra sedicente
sicurezza: abbiamo forse il potere di opporci a questa decisione? In
queste condizioni di evidente subordinazione pensare l’indipendenza può
sembrare follia.
E non lo è?
In troppo pochi vogliono credere che l’indipendenza,
lungi dal generare isolamento, abbia la potenzialità di suscitare
relazioni politiche paritarie, all’interno delle quali ogni legame –
anche quello economico - sorge come uno scambio bidirezionale. Pensarsi
indipendenti da un singolo potere è il solo modo per conquistare il bene
dell’interdipendenza a tutto spettro, cioè uno sviluppo maturo
non subordinato alla compiacenza di un unico soggetto più forte.
Rifiutare il percorso dell’autonomia in favore di quello per
l’indipendenza significa delegittimare l’idea di avere un solo
interlocutore, vuol dire disconoscergli il ruolo dominante di
padre-padrone. Chiaramente l’indipendenza in questi termini non è un
sogno a buon mercato. Più che chiedersi se è realmente possibile,
occorre domandarsi quanto si è disposti a spendersi per ottenerla.
di Michela Murgia
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