lunedì 16 dicembre 2013

Il “Comune morire” per il Patto di Stabilità.

Fonte: DIRITTO DI VOTO

di Renato Ornaghi

Un contributo sul problema della sostenibilità dei bilanci delle comunità locali, nell'ambito del rapporto con lo Stato, scritto per Diritto di Voto da Renato Ornaghi, consigliere comunale di Monticello Brianza, per la lista civica "Progetto Monticello", formazione con orientamento di centrosinistra. 

 

Tra i modi che ci sono di andarsene per sempre, uno dei più terribili è quello senz’altro dopo lunga malattia: un “morire ogni giorno“ che fa percepire al malato - nel durante della lenta agonia - il fatto che non si possa proprio fare nulla. E’ un soccombere nel quale il corpo umano inizia a far mancare risorse alla regioni più periferiche, per mantenere vivi gli organi centrali. Sino a quando anche questi ultimi cedono e si giunge alla tragica fine. Mi scuso per la dura e cruda metafora, ma è purtroppo perfetta per il tema di cui parlo: mutatis mutandis, dal punto di vista amministrativo di un Ente locale l’esatto equivalente di questo orribile morire è infatti il cosiddetto “Patto di Stabilità applicato agli Enti locali”.
Pochi conoscono le perverse implicazioni che tale strumento di finanza ha sui nostri territori, sui nostri Comuni: cercherò allora innanzitutto di far capire cos’è il Patto di Stabilità, quali sono gli obiettivi e quali gli effetti concreti che produce. Il Patto (per ironia, il suo nome completo è “Patto di Stabilità e Crescita”) è stato pensato dall’UE per tenere sotto controllo i conti pubblici degli Stati appartenenti all’area Euro. Quando si parla  di conti pubblici non ci si riferisce solo a quelli degli Stati centrali, ma sono ricompresi anche quelli degli enti territoriali (in Italia: Regioni, Province e Comuni). Per questo il Patto di Stabilità produce effetti – negativi - anche e soprattutto per questi ultimi Enti, che sono poi quelli più vicini alle reali necessità e ai bisogni delle persone e delle imprese.
Inizialmente il Patto era impostato sul concetto dei limiti di spesa: i Comuni non potevano spendere più di un certo importo prefissato, questo già provocava limitazioni poco rispettose dell’autonomia degli Enti. Poi c’è stata una evoluzione-involuzione: per rispettare il Patto i Comuni non devono peggiorare il proprio saldo finanziario di un determinato anno, rispetto alla media del triennio precedente. Questo ingenera problemi enormi alle casse di un Comune, soprattutto per la parte del bilancio relativa agli investimenti. Non sempre infatti le opere pubbliche riescono ad essere completate lo stesso anno in cui vengono reperite le risorse, per cui in questi casi il saldo non può che sballare: se un anno entrano le risorse, e l’anno dopo escono per realizzare un’opera, da un punto di vista pratico si agisce nella correttezza (perché vengono investite risorse accantonate e a disposizione), ma dal punto di vista contabile i saldi non tornano, perché il primo anno avrò più entrate che uscite (e quindi il comportamento, ai fini del Patto, è considerato positivo), mentre l’anno dopo avrò più uscite che entrate (e quindi il saldo finanziario sballerà, provocando il mancato rispetto del Patto).
Per i Comuni il Patto di Stabilità è davvero fatale (e paradossalmente lo è di più per quelli virtuosi): anche quando ci sono i soldi non si possono spendere, e vanno conferiti alla Ragioneria dello Stato. Senza possibilità di spesa, le infrastrutture anche primarie non possono essere realizzate: il Comune diventa in sostanza una sorta di bancomat dal qual lo Stato centrale attinge risorse, e soprattutto perde quella fondamentale funzione di catena di trasmissione tra governo centrale, cittadini e imprese. In sostanza, diventa un soggetto vessatore/tassatore netto, senza alcun valore aggiunto di programmazione e gestione del territorio.
Sembra una situazione senza senso, ma in realtà tutto ha una logica, anche in situazioni perverse come questa. Visto che il Patto di Stabilità riguarda tutti gli enti territoriali di uno Stato, in Italia si è pensato bene di rispettarlo a scapito di Regioni, Province e Comuni. In parole povere: con questi vincoli si vuole compensare il deficit dello Stato centrale con i surplus imposti ai Comuni (che hanno i soldi, ma non possono spenderli e quindi creano avanzi) così da rispettare il Patto. Ma il guaio è che i conti tornano solo dal punto di vista contabile, perché nella realtà il deficit dello Stato centrale resta intatto e i Comuni hanno soldi che non possono investire, rischiando di compromettere la qualità dei servizi e la possibilità di fare investimenti.
Ogni tanto osservo attentamente i Comuni del territorio dove vivo, la Brianza: pur sotto colori politici diversi, le Amministrazioni ritengo abbiano operato mediamente con virtuosità e correttezza, amministrando le risorse finanziarie con lo scrupolo e l’attenzione del cosiddetto “buon padre di famiglia”, mettendo a disposizione di cittadini e imprese le infrastrutture primarie e secondarie per garantire un giusto livello di serenità, operosità e benessere diffuso. Che però non è stato regalato dall’alto da un dio benevolo, ma è stato sudato con il lavoro e l’operosità pluriennali delle generazioni che ci hanno preceduto, pur dovendo far fronte a una fiscalità via via crescente che erodeva anno dopo anno i poteri di acquisto e la redditività del capitale investito.
Negli anni dal 1960 al 2000 i Comuni brianzoli hanno realizzato infrastrutture fondamentali: strade, fognature, scuole, acquedotti, edifici pubblici. Orbene, mi tremano i polsi a pensare cosa si potrà mai fare quando queste infrastrutture richiederanno manutenzioni importanti, avendo le amministrazioni locale da rispettare questo Leviatano senza senso e senza ragione che è il Patto di Stabilità. Pensato dallo Stato centrale per trasferire obblighi insostenibili ai territori e consentendo a sé stesso  di mantenere “il grasso in eccesso”, quando non addirittura di incrementarlo. Uno Stato centrale che non riesce minimamente a incidere su una spesa di parte corrente di oltre 700 miliardi di Euro/anno.
Non occorre essere di destra o di sinistra per capire o meno che questa situazione non può reggere, che i territori più di tanto non possono sopportare e che quando la corda si spezza nulla poi riuscirà a trattenere il carico continuo di oneri continuamente pagati, senza avere alcunché o assai poco in contropartita. La pazienza dei territori verso lo Stato centrale è stata ed è tanta, ma non può essere certo infinita. E la reazione dei territori, che hanno tanto pagato e tanto hanno patito “usi a obbedir tacendo”, può diventare tanto eclatante quanto inaspettata. Non lo dico io, ma la Bibbia stessa: tremenda può essere l’ira dei mansueti.

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