Il Fatto Quotidiano, 8 ottobre 2011- di MASSIMO FINI
domenica 9 ottobre 2011
Consumismo, la profezia di San Francesco
Mentre tutto il mondo piange lacrime, virtuali, per Steve Jobs, morto di cancro a 56 anni (sic transit gloria mundi), io preferisco ricordare l’onomastico di San Francesco d’Assisi, patrono d’Italia, di cui qualche giorno fa, il 4 ottobre, ricorreva l’onomastico, snobbato da quasi tutti i media italiani.
Quei pochi che ne hanno parlato lo hanno legato all’Unità d’Italia, con cui il fraticello di Assisi non ha nulla a che fare perché nato prima che questa sciagura si compisse, o ne hanno sottolineato la vocazione alla tolleranza e alla pace. Che ci sono sicuramente in Francesco. Ma nella sua predicazione ci sono cose molto più attuali e non a caso sottaciute.
L’amore per la natura (frate Sole, sora Aqua). Era un ambientalista con qualche secolo d’anticipo non potendo conoscere gli scempi dell’industrializzazione a cui nemmeno i suoi santi occhi avrebbero potuto reggere. La predicazione della povertà. Qui Francesco è veramente scandaloso. Scandaloso e attualissimo. Figlio di un mercante aveva capito o intuito, poiché era un genio oltre che un santo, dove ci avrebbe portato la logica del mercato. Modernamente, poiché noi non siamo santi, il termine povertà può essere tradotto con sobrietà, che è meno radicale.
Noi non abbiamo bisogno di ingurgitare, come cavie all’ingrasso, degradati da uomini a consumatori, ancora nuovi prodotti, nuove tecno, iPad, iPhone già arrivato, nel giro di un paio d’anni, alla quinta generazione, affascinanti quanto devastanti, o sciocchezze come le “linee di beauty per cani” (che vanno trattati da cani), gadget demenziali e insomma tutte le infinite inutilità da cui siamo circondati e soffocati. Abbiamo bisogno, al contrario, di smagrire e di molto. Abbiamo bisogno di una vita più semplice, più umana, senza essere ossessionati ogni giorno dai Ftse Mib, dall’indice Dax, dagli spread, dai downgrading.
C’è una possibilità realistica di arrivarci? Sì,volendolo e con alcune necessarie mediazioni. La parola chiave è autarchia, squalificata anche perché di mussoliniana memoria. Ovviamente oggi nessun Paese, da solo, potrebbe essere autarchico. Retrocederebbe a condizioni di sottosviluppo che non siamo più in grado di sopportare. Ma l’Europa potrebbe essere autarchica. Ha popolazione, e quindi mercato, risorse, know how sufficienti per fare da sé.
Naturalmente l’autarchia ridurrebbe la ricchezza complessiva delle nazioni europee, ma “La Ricchezza delle Nazioni” non corrisponde affatto alla qualità della vita e nemmeno alla ricchezza dei singoli (negli Stati Uniti, il Paese più ricco e potente del mondo, ci sono 46 milioni di poveri, o per essere più precisi di miserabili che è un concetto diverso, quasi un quarto della popolazione). Si tratterebbe semmai, in questa ipotesi, di distribuire in modo più equo la ricchezza che rimarrebbe.
Ma un’autarchia europea ci porterebbe perlomeno al riparo dagli effetti più devastanti di quella globalizzazione che secondo le leadership politiche, gli economisti, gli intellettuali avrebbe fornito straordinarie chance e che invece si sta rivelando un massacro per i popoli del Terzo e ora anche del Primo mondo, sacrificati sull’altare di uno dei tanti “idola” moderni: il lavoro. Se continueremo a inseguire il mito della crescita, un giorno questo sistema, fattosi planetario, imploderà su se stesso, di colpo, e ci troveremo a vagare come fantasmi fra le rovine fumanti e i materiali accartocciati di un mondo che fu.
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