di MARCO DOTTI
Le mafie non hanno bisogno (soltanto) di affiliazioni o connivenze. Hanno bisogno di addiction, di dipendenze. Per questo, i processi di legalizzazione, come si usa chiamarli, di sostanze, campi o prodotti che inducono addiction sono sempre processi fragili.
Delicati e
fragili perché permeabili proprio da chi, attraverso lo schermo pratico
del “togliamo il business alle mafie” e lo schema retorico della
“legalità” risolutrice può trarre un profitto. L’illegalità rimane, ma diventa un’opzione di business non il primo terreno per fare profitto. Spesso un profitto indiretto, perché, per parafrasare Flaiano, la linea più semplice che lega le mafie al business dell’addiction non è quella retta, ma l’arabesco.
Permeabili questi processi lo sono perché
mentre animano il campo di finte contrapposizioni
(proibizionismo/antiproibizionismo, Stato etico/Stato laico,
libertà/asservimento), coprono sottotraccia una materia oscura. Con il
rischio che questa fuoriesca e ammorbi tutto quanto.
Stiamo
assistendo proprio a qualcosa del genere, in questi giorni, attraverso
una serie di crisi-spia attorno alle quali le contrapposizioni che solo
qualche anno fa ci sembravano tenere, scivolano e non reggono più.
Azzardo, cannabis, eutanasia infantile e via discorrendo sono passati
dall’essere “problemi”, a alibi per esercitare la retorica degli uni e
alimentare gli interessi degli altri (in primo luogo del parastato e
dello Stato giunto al suo crepuscolo fiscale).
Prendiamo il
caso dell’azzardo di massa in Italia: a dieci anni dalla sua
“legalizzazione” possiamo ben dire che le dipendenze – non solo quelle
cliniche, ma quelle sociali – sono esponenzialmente aumentate e il
business delle mafie ne ha tratto un indubbio giovamento.
Indebitamento e dipendenza di massa rendono malleabile una manodopera
spesso molto qualificata dal punto di vista del terziario avanzato che
prima era disponibile solo attraverso il meccanismo dell’affiliazione o
del ricatto.
Le mafie sono come la peste. Non serve gridare agli untori per debellarla. Anche se, come ricordava Alessandro Manzoni, in pagine ben note dei suoi Promessi Sposi, pure a quel tempo c’era qualcuno «che
non credeva agli untori, ma non poteva sostenere la sua opinione,
contro l’opinione volgare diffusa, perché il buon senso c’era, ma se ne
stava nascosto per paura del senso comune».
La
legalizzazione a mezzo stampa è un alibi che il senso comune offre alla
peste delle dipendenze. Non è questione di proibizionismo o di
antiproibizionismo, è questione di coperture etiche mobili: di uno Stato
che si vuole etico quando chiede agli utenti di pagare il Canone Rai,
ma si dimentica di esserlo quando si fa complice di fenomeni che
producono disagio, malessere… dipendenza.
È
forse ora comunque che il buon senso esca allo scoperto e inchiodi il
senso comune alle sue responsabilità. E ricordi che la legalità non è un
valore (o un fine), ma un’opzione possibile (un mezzo). Un’opzione
che oggi denota una profonda perversione dei mezzi in fini e contro la
quale resta pur sempre valida l’opzione estrema e contraria, evocata
anche dalla Arendt, della disobbedienza civile.
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