Ripropongo qui un'articolo scritto da Fabrizio Rondolino il 5 ottobre 2011.
Fabrizio Rondolino ha fatto parte della Direzione nazionale della Federazione giovanile comunista italiana, dal 1988 al 1996 ha lavorato come al quotidiano comunista italiano "l'Unità". Dal 1996 al 1999 ha lavorato come responsabile della comunicazione nello staff del comunista italiano Massimo d'Alema.
L’Italia non va salvata dalla crisi, ma da se stessa: l’Italia va
disfatta. Disfare l’Italia significa due cose: secessione e autogoverno
delle comunità, drastica riduzione dei poteri e degli àmbiti del governo
ad ogni livello.
Il diritto alla secessione è un diritto naturale, perché
scaturisce dal diritto a disporre liberamente della propria persona. Il
diritto alla secessione ha la medesima origine e la stessa sacralità del
diritto all’autogoverno. Se posso decidere chi mi governa, devo anche poter decidere che cosa
mi governa. Ne consegue che ogni comunità – dal singolo nucleo
familiare a intere regioni del Paese – ha il diritto, in ogni momento,
di secedere dal corpo politico di cui fa parte (senza peraltro averlo
mai scelto né deciso) per autogovernarsi come meglio crede. Quando una
Costituzione nega un diritto naturale, è da considerarsi nulla e
illegittima, e come tale decaduta. Ne consegue che il diritto naturale
alla secessione e all’autogoverno è anche un diritto costituzionale, indipendentemente da ciò che la Costituzione attuale contiene.
Disfare l’Italia, in questa prima accezione, significa dunque
consentire alle comunità di organizzarsi come preferiscono. Attraverso
successive secessioni, e secessioni di secessioni, il governo nazionale
cessa spontaneamente di esistere per lasciare il posto ad una pluralità
di comunità e di corpi politici liberi di interagire e cooperare
spontaneamente tra loro e con il resto del mondo.
Questa, del resto, è stata la sola grandezza dell’Italia: è dalla sua
pulviscolare frammentazione politica che sono nati l’Umanesimo, il
Rinascimento, le banche e il capitalismo, Leonardo e Dante. Soltanto da
centocinquant’anni la Penisola è ridotta in schiavitù da una gabbia
artificiale e posticcia, storicamente ingiustificata, frutto delle mode
nazionaliste di un pugno di letterati di provincia e, da ogni punto di
vista, del tutto inefficiente. Disfare l’Italia significa dunque
liberarla e restituirla alla propria millenaria tradizione di territori,
regioni e città libere.
L’altro modo per disfare l’Italia è la rivolta fiscale. Anche questo è
un diritto naturale, poiché discende dal diritto di proprietà (tutte le
rivoluzioni liberali, del resto, sono nate come rivolte fiscali).
Seppur prelevati forzosamente dallo Stato, i miei soldi restano infatti i
miei soldi, e se ho la ragionevole convinzione che vengano dissipati, è
mio diritto fare di tutto per metterli al sicuro. Fino alla Grande
guerra l’aliquota sul reddito non superava in Occidente l’8%; oggi è
dappertutto oltre il 40%. È nostro diritto riprenderci quel terzo del
nostro patrimonio che lo Stato ha incamerato con la forza nel corso
dell’ultimo secolo.
Meno soldi allo Stato significa abbattere la mostruosa burocrazia
istituzionale e politica che ci soffoca e ci impedisce di lavorare. Meno
soldi allo Stato significa che lo Stato dovrà privatizzare – cioè
restituire alla libertà di scelta dei cittadini – settori pubblici oggi
del tutto anacronistici, come la radiotelevisione, la sanità e
l’istruzione. Meno soldi allo Stato significa che la pubblica
amministrazione dovrà drasticamente dimagrire perché non ci sarà di che
pagare gli stipendi; di conseguenza, non dovendosi più giustificare
l’esistenza di un esercito sterminato di funzionari incaricato di
ostacolarci la vita, diminuiranno sensibilmente anche le leggi, i
regolamenti e le circolari. Meno soldi allo Stato significa, in
generale, che lo Stato si occuperà sempre meno di noi, e che ogni
singolo e ogni comunità potranno scegliere liberamente sul mercato i
servizi e le opportunità che preferiscono.
Con meno tasse e meno vincoli, in un ambiente privo della
mastodontica burocrazia politico-statale, dove le persone, le merci e i
capitali circolano liberamente, la prosperità e il benessere sono alla
portata di chiunque abbia voglia di provare a raggiungerli. Fermo
restando il diritto di ciascuno a scegliere la propria strada alla
felicità.
La crisi aiuta a disfare l’Italia perché colpisce al cuore lo Stato
sociale-assistenziale, di cui mette a nudo il carattere intrinsecamente
truffaldino. A far cadere le borse e a far aumentare lo spread
non sono i fantomatici “speculatori” evocati dalla propaganda
politico-burocratica, ma i cittadini-risparmiatori che mettono al riparo
i propri soldi. Il cuore della crisi è tanto semplice quanto
definitivo: il debito pubblico, che ha finanziato negli anni un Welfare
sempre più inefficiente e sempre più spendaccione, consentendo così ad
una classe politica parassitaria di comprare ogni volta il consenso
degli elettori, ha superato il livello di guardia e sta implodendo
sull’economia del mondo.
Per questo la crisi è epocale, e probabilmente irreversibile. Lo
Stato sociale – cioè lo Stato che prende i soldi dalle tasche dei
cittadini per imporre loro una serie di servizi non richiesti, che
redistribuisce la ricchezza a propria insindacabile discrezione, e che
interviene sistematicamente nell’economia – è la peggior invenzione del
Novecento, ed è il degno figlio naturale della peggior invenzione
dell’Ottocento, il nazionalismo. Fascismo, comunismo, New Deal,
nazionalsocialismo, socialdemocrazia, cattolicesimo democratico e
sociale sono altrettante declinazioni (certo non tutte uguali) dello
stesso principio ipertrofico, dirigista e impiccione dello Stato.
Ma qualsiasi economia alterata dall’intervento pubblico è destinata
prima o poi a implodere e a trascinare con sé il sistema politico di cui
è espressione. È successo con il socialismo reale, che è crollato per
un fallimento economico (quello politico era già evidente da
mezzo secolo); sta succedendo con il socialismo occidentale, finalmente
prossimo alla bancarotta.
Il mondo del futuro può dipendere anche da noi. Il crollo dello
statalismo democratico sotto il peso di un debito abnorme s’accompagna
non per caso alla frantumazione politica e istituzionale. Anche qui vale
il precedente dell’Est. Dove c’era l’Urss, oggi ci sono una dozzina di
paesi; la guerra “civile” in Iugoslavia è finita quando finalmente ogni
comunità ha potuto secedere dalla Serbia; la Cecoslovacchia è stata
sciolta. Con il crollo dello statalismo democratico, nulla potrà
impedire alla Catalogna o alla Baviera, alla Lombardia o al Tirolo di
proclamare l’indipendenza. Le nazioni non esistono: sono per metà una
teoria politica fra le tante, e per l’altra metà un accordo fra le case
regnanti di due secoli fa. Le nazioni non esistono: in natura esistono
le persone, le comunità che si formano e si autogovernano liberamente, e
il grande mondo. Non abbiamo bisogno di altro per vivere liberi.
L’Italia, per la sua gloriosa tradizione di frammentazione politica, è
nei fatti all’avanguardia del processo di dissoluzione degli Stati
nazionali-assistenziali. La possibilità che il default del
Paese, oltre a travolgere una classe politica parassitaria e un apparato
burocratico-assistenziale impiccione, inefficace e costosissmo, faccia
anche esplodere l’artificiosa unità “nazionale” che ci è stata imposta
centocinquant’anni or sono dal Re di Sardegna, restituendo così agli
italiani le loro libertà naturali, è oggi una possibilità più concreta. Disfare l’Italia sta diventando qualcosa di più di una speranza.
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