sabato 28 dicembre 2013

E' ora di disfare l'italia.

Ripropongo qui un'articolo scritto da Fabrizio Rondolino il 5 ottobre 2011.
Fabrizio Rondolino ha fatto parte della Direzione nazionale della Federazione giovanile comunista italiana, dal 1988 al 1996 ha lavorato come al quotidiano comunista italiano "l'Unità". Dal 1996 al 1999 ha lavorato come responsabile della comunicazione nello staff del comunista italiano Massimo d'Alema.

L’Italia non va salvata dalla crisi, ma da se stessa: l’Italia va disfatta. Disfare l’Italia significa due cose: secessione e autogoverno delle comunità, drastica riduzione dei poteri e degli àmbiti del governo ad ogni livello.
Il diritto alla secessione è un diritto naturale, perché scaturisce dal diritto a disporre liberamente della propria persona. Il diritto alla secessione ha la medesima origine e la stessa sacralità del diritto all’autogoverno. Se posso decidere chi mi governa, devo anche poter decidere che cosa mi governa. Ne consegue che ogni comunità – dal singolo nucleo familiare a intere regioni del Paese – ha il diritto, in ogni momento, di secedere dal corpo politico di cui fa parte (senza peraltro averlo mai scelto né deciso) per autogovernarsi come meglio crede. Quando una Costituzione nega un diritto naturale, è da considerarsi nulla e illegittima, e come tale decaduta. Ne consegue che il diritto naturale alla secessione e all’autogoverno è anche un diritto costituzionale, indipendentemente da ciò che la Costituzione attuale contiene.
Disfare l’Italia, in questa prima accezione, significa dunque consentire alle comunità di organizzarsi come preferiscono. Attraverso successive secessioni, e secessioni di secessioni, il governo nazionale cessa spontaneamente di esistere per lasciare il posto ad una pluralità di comunità e di corpi politici liberi di interagire e cooperare spontaneamente tra loro e con il resto del mondo.
Questa, del resto, è stata la sola grandezza dell’Italia: è dalla sua pulviscolare frammentazione politica che sono nati l’Umanesimo, il Rinascimento, le banche e il capitalismo, Leonardo e Dante. Soltanto da centocinquant’anni la Penisola è ridotta in schiavitù da una gabbia artificiale e posticcia, storicamente ingiustificata, frutto delle mode nazionaliste di un pugno di letterati di provincia e, da ogni punto di vista, del tutto inefficiente. Disfare l’Italia significa dunque liberarla e restituirla alla propria millenaria tradizione di territori, regioni e città libere.
L’altro modo per disfare l’Italia è la rivolta fiscale. Anche questo è un diritto naturale, poiché discende dal diritto di proprietà (tutte le rivoluzioni liberali, del resto, sono nate come rivolte fiscali). Seppur prelevati forzosamente dallo Stato, i miei soldi restano infatti i miei soldi, e se ho la ragionevole convinzione che vengano dissipati, è mio diritto fare di tutto per metterli al sicuro. Fino alla Grande guerra l’aliquota sul reddito non superava in Occidente l’8%; oggi è dappertutto oltre il 40%. È nostro diritto riprenderci quel terzo del nostro patrimonio che lo Stato ha incamerato con la forza nel corso dell’ultimo secolo.
Meno soldi allo Stato significa abbattere la mostruosa burocrazia istituzionale e politica che ci soffoca e ci impedisce di lavorare. Meno soldi allo Stato significa che lo Stato dovrà privatizzare – cioè restituire alla libertà di scelta dei cittadini – settori pubblici oggi del tutto anacronistici, come la radiotelevisione, la sanità e l’istruzione. Meno soldi allo Stato significa che la pubblica amministrazione dovrà drasticamente dimagrire perché non ci sarà di che pagare gli stipendi; di conseguenza, non dovendosi più giustificare l’esistenza di un esercito sterminato di funzionari incaricato di ostacolarci la vita, diminuiranno sensibilmente anche le leggi, i regolamenti e le circolari. Meno soldi allo Stato significa, in generale, che lo Stato si occuperà sempre meno di noi, e che ogni singolo e ogni comunità potranno scegliere liberamente sul mercato i servizi e le opportunità che preferiscono.
Con meno tasse e meno vincoli, in un ambiente privo della mastodontica burocrazia politico-statale, dove le persone, le merci e i capitali circolano liberamente, la prosperità e il benessere sono alla portata di chiunque abbia voglia di provare a raggiungerli. Fermo restando il diritto di ciascuno a scegliere la propria strada alla felicità.
La crisi aiuta a disfare l’Italia perché colpisce al cuore lo Stato sociale-assistenziale, di cui mette a nudo il carattere intrinsecamente truffaldino. A far cadere le borse e a far aumentare lo spread non sono i fantomatici “speculatori” evocati dalla propaganda politico-burocratica, ma i cittadini-risparmiatori che mettono al riparo i propri soldi. Il cuore della crisi è tanto semplice quanto definitivo: il debito pubblico, che ha finanziato negli anni un Welfare sempre più inefficiente e sempre più spendaccione, consentendo così ad una classe politica parassitaria di comprare ogni volta il consenso degli elettori, ha superato il livello di guardia e sta implodendo sull’economia del mondo.
Per questo la crisi è epocale, e probabilmente irreversibile. Lo Stato sociale – cioè lo Stato che prende i soldi dalle tasche dei cittadini per imporre loro una serie di servizi non richiesti, che redistribuisce la ricchezza a propria insindacabile discrezione, e che interviene sistematicamente nell’economia – è la peggior invenzione del Novecento, ed è il degno figlio naturale della peggior invenzione dell’Ottocento, il nazionalismo. Fascismo, comunismo, New Deal, nazionalsocialismo, socialdemocrazia, cattolicesimo democratico e sociale sono altrettante declinazioni (certo non tutte uguali) dello stesso principio ipertrofico, dirigista e impiccione dello Stato.
Ma qualsiasi economia alterata dall’intervento pubblico è destinata prima o poi a implodere e a trascinare con sé il sistema politico di cui è espressione. È successo con il socialismo reale, che è crollato per un fallimento economico (quello politico era già evidente da mezzo secolo); sta succedendo con il socialismo occidentale, finalmente prossimo alla bancarotta.
Il mondo del futuro può dipendere anche da noi. Il crollo dello statalismo democratico sotto il peso di un debito abnorme s’accompagna non per caso alla frantumazione politica e istituzionale. Anche qui vale il precedente dell’Est. Dove c’era l’Urss, oggi ci sono una dozzina di paesi; la guerra “civile” in Iugoslavia è finita quando finalmente ogni comunità ha potuto secedere dalla Serbia; la Cecoslovacchia è stata sciolta. Con il crollo dello statalismo democratico, nulla potrà impedire alla Catalogna o alla Baviera, alla Lombardia o al Tirolo di proclamare l’indipendenza. Le nazioni non esistono: sono per metà una teoria politica fra le tante, e per l’altra metà un accordo fra le case regnanti di due secoli fa. Le nazioni non esistono: in natura esistono le persone, le comunità che si formano e si autogovernano liberamente, e il grande mondo. Non abbiamo bisogno di altro per vivere liberi.
L’Italia, per la sua gloriosa tradizione di frammentazione politica, è nei fatti all’avanguardia del processo di dissoluzione degli Stati nazionali-assistenziali. La possibilità che il default del Paese, oltre a travolgere una classe politica parassitaria e un apparato burocratico-assistenziale impiccione, inefficace e costosissmo, faccia anche esplodere l’artificiosa unità “nazionale” che ci è stata imposta centocinquant’anni or sono dal Re di Sardegna, restituendo così agli italiani le loro libertà naturali, è oggi una possibilità più concreta. Disfare l’Italia sta diventando qualcosa di più di una speranza.

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